di Luca Chiurchiù
A un certo punto de La letteratura e il male, Georges Bataille scrive alquanto perentoriamente che “i tempi di sommossa sono in linea di massima sfavorevoli alla fioritura delle lettere”. Così si legge nella traduzione curata da Andrea Zanzotto. Si può essere d’accordo con Bataille, a patto però che si seguano le sue indicazioni, usando le sue stesse parole, in linea di massima. Perché se è vero che i tempi di sommossa vengono ricordati soprattutto per gli stravolgimenti concreti che essi riescono a portare (o no), bisogna pure ammettere che proprio nel tempo dell’eccezione, nel tempo in cui certi confini che fino a un momento prima si ritenevano immutabili e inscalfibili vengono messi in discussione, un azzardo anche a livello immaginativo può trovare nuova linfa e, soprattutto, nuovo spazio. Nelle lettere, appunto, ma anche nelle arti in generale. Come a dire che tra le crepe di una certa realtà presa d’assedio, possono germogliare fiori inaspettati, mai prima visti. Ma Bataille, nella stessa pagina, afferma anche un’altra cosa, più importante ancora per il nostro breve discorso: cioè che, mentre la letteratura non ha vita facile al di fuori di periodi di pace e prosperità, al contrario i giornali diventano fondamentali proprio nei momenti di rottura della storia, dando “al destino dell’uomo il suo volto”. Certo, qui Bataille fa riferimento principalmente alla cronaca – nella quale, sempre in tempi di rivoluzione, gli eroi non sono personaggi di finzione, ma uomini e donne in carne e ossa –, eppure riesce a mettere l’accento su una questione centrale e più generale. Almeno per buona parte della nostra modernità, infatti, i giornali e i periodici non solo si sono costituiti come dei mezzi di comunicazione rapidi e “flessibili”, adatti cioè a fronteggiare e restituire la mutevolezza degli eventi in tempo reale, ma anche dei luoghi (fisici, alle volte) in cui poter coltivare una riflessione teorica collettiva e autonoma, spesso di carattere antagonista. E così è stato nel caso di quell’arcipelago costituito dalla produzione di riviste legate al movimento del Settantasette in Italia. Proprio di un arcipelago si tratta, come lo hanno definito due dei protagonisti e dei principali promotori culturali di quello stesso movimento: Nanni Balestrini e Primo Moroni. In effetti, la metafora di una manciata di isole sparse eppur collegate tra loro può aiutare a comprendere in quale misura questi periodici, queste piccolissime testate occupassero posizioni simili e al contempo molto distanti tra loro, emergendo da una medesima superficie, tutt’altro che piatta: il movimento di contestazione giovanile degli anni Settanta. In questo senso, Giovanni Moro ha colto nel segno quando, servendosi anche lui di una metafora marina, ha paragonato gli anni Settanta italiani e i loro processi all’apparenza incompatibili, alle acque dei due oceani che pericolosamente si scontrano, e che però non si confondono, all’altezza del Capo di Buona Speranza. Nel caso dell’anno fatidico del doppio sette, quando le esperienze maturate in un decennio di lotte studentesche e operaie trovarono il loro apice e allo stesso tempo il loro declino, una simile immagine, forse, può risultare ancora più efficace. (Anche se Moro per indicare il Settantasette ha preferito fare ricorso a quella ben più liquidatoria di un’invasione di cavallette). Solo la vastità di un oceano in tempesta può rendere l’idea del movimento del Settantasette, o forse la tempesta stessa. Ma, proprio come al Capo di Buona Speranza, non siamo di fronte a un solo oceano, bensì a due: doppia e bifida, infatti, sembra essere stata l’anima del movimento. O almeno così, molto spesso, viene raccontata. Un enigmatico fenomeno dove da una parte stava la violenza, di piazza o meno, diffusa o organizzata, e dall’altra, invece, un fermento culturale e creativo a dir poco notevole, quello della cosiddetta ala desiderante, votata alla
trasformazione della propria esistenza attraverso l’arte, il gioco e, spesso, le droghe. In realtà, grazie a recenti studi sistematici sulla questione come quelli di Luca Falciola e di Alessio Gagliardi, sappiamo che questi due oceani comunicarono più volte tra loro, e che le correnti che li attraversarono furono in molti casi le medesime, senza soluzione di continuità. Per farsi una piccola idea visiva e concreta di una simile commistione e compromissione, basti solamente dare uno sguardo alle foto delle scritte murarie che invasero le principali città italiane durante quell’anno. Accanto alle minacce più esplicite, trovavano spazio lazzi e filastrocche, paradossi e giochi di parole, spesso sovrapponendosi, o coprendosi a vicenda. Oggi, staccare e selezionare questi graffiti sarebbe
impossibile, oltreché un errore storiografico. Si finirebbe col demolire tutto il muro, rimanendo con nulla in mano. Perché se è vero che il movimento del Settantasette fu prismatico, contradditorio e per molti aspetti inclassificabile, il sogno, o forse meglio il desiderio, che lo animò fu sostanzialmente unico (anche se perseguito in alcuni casi con pratiche distruttive e autodistruttive): quello di una vita diversa, lontana dai precetti consumistici e dai ritmi dettati dal sistema capitalistico e patriarcale. Soprattutto in un momento in cui l’avvenire radioso promesso da tale sistema stava cedendo sotto i colpi di un nuovo ordine economico e produttivo e di nuove crisi, mostrando finalmente i suoi lati oscuri. Un momento in cui anche il futuro, come cantavano i Sex Pistols proprio nel 1977, stava in gran fretta cancellandosi. È in questo senso allora che il “personale” diventava politico: i giovani non garantiti del movimento settantasettino, così eterogenei per estrazione e cultura ma così vicini per l’insofferenza nei confronti di uno stato di cose giudicato opprimente e ingiusto, decisero che non c’era più tempo per aspettare il sol dell’avvenire del mito comunista, come avevano fatto i loro fratelli
maggiori nel Sessantotto. Né, tantomeno, di seguire un percorso riformistico all’interno delle maglie democratiche, come stava proponendo il PCI di Berlinguer. Lo stesso PCI che li accusava di diciannovismo. La rivoluzione doveva essere nel qui e ora, doveva cominciare dal proprio corpo e dal proprio vissuto: del resto, le vittorie ottenute dalle frange femministe avevano dimostrato proprio questo. Bisognava partire dalla propria unica, inimitabile voce, insomma, senza nessun tipo di delega e men che meno di mediazione. Autonomia, ovviamente, la parola chiave. Frutto vivace di questo bisogno di dar sfogo e sfoggio alla propria voce, anche con la consapevolezza e la leggerezza di non essere ascoltati, oltre alle radio libere ormai leggendarie (come dimenticarsene?), fu proprio quell’arcipelago fatto di riviste e di giornali di cui dicevamo prima. Riviste e giornali rigorosamente autoprodotti in casa, con mezzi spesso primordiali e poveri. Stampanti offset, trasferibili e macchine da scrivere erano tutto l’occorrente necessario per dare vita a progetti che molto spesso si esaurivano nell’arco di pochissimi mesi, o settimane, a volte arrestandosi addirittura ai “numeri zero”. Più disparati erano gli argomenti trattati, perché più disparati erano i collettivi e i gruppetti dietro a questi fogli, dove a essere messo sempre più in rilievo era proprio l’universo interiore di chi ci scriveva: non più teorizzazione o proposte strategiche, ma esperienza vissuta, a volte subita: racconto di sé. Perfino un giornale come «Lotta continua», figlio della tradizione sessantottesca e ormai organo di stampa “ufficiale” di una parte importante dell’ultrasinistra, cominciò a ospitare sulle sue colonne la posta inviata dai suoi lettori. Nell’anno del doppio sette si registrò il picco di questo processo: e a testimonianza di ciò sta proprio la nascita di centinaia di fanzine pressoché in tutta Italia, anche in zone provinciali e periferiche. Tre furono però i principali centri di questa proliferazione inarrestabile e ostinatamente felice: Bologna, Milano, Roma. Nella capitale, in particolare, proprio nel 1977 venne ad assembrarsi quasi naturalmente un manipolo di artisti e dissacratori incalliti: gli indiani metropolitani. Giovanissimi, spigliati e in un certo senso già oltre la parabola del movimento stesso. L’unico scopo delle loro riviste e dei loro slogan nonsense sembrava proprio quello dello smontaggio ironico e dellamdecostruzione a oltranza delle parole d’ordine che rimbombavano ancora assertive durante i cortei e le assemblee. Numi tutelari di questi apache nostrani, tra i quali possiamo ricordare, per esempio, Pablo Echaurren e Maurizio
Gabbianelli, non furono più i padri fondatori del marxismo, né i teorizzatori dell’operaismo degli anni Sessanta, ma Duchamp, Tzara e Debord. La ripresa delle avanguardie storiche e del situazionismo stava a significare appunto la volontà di abbattere il confine tra l’arte e la vita: rovesciare l’ordine delle cose per mezzo della creatività, rifondare daccapo l’esistenza, ripensandola e immaginandosela in un altro modo. L’arte doveva insomma insinuarsi nella quotidianità, e viceversa: doveva trasformarsi in pratica collettiva e liberatrice, alla portata di tutti. Per certi versi, fu proprio così: i linguaggi di queste correnti artistiche divennero patrimonio di moltissimi giovani, anche in maniera ingenua, tanto da far parlare due grandi intellettuali quali Umberto Eco e Maurizio Calvesi di una “avanguardia di massa”, formula celebre per gli addetti ai lavori. Secondo i due critici, i comportamenti e le parole d’ordine che avevano caratterizzato correnti come futurismo, surrealismo e dadaismo venivano fatti propri, spesso inconsapevolmente, da una parte non trascurabile del movimento, vanificandone, in tal modo, anche il gradiente di rottura originario. Bisogna tenere bene a mente questa componente ludica, di sicuro preponderante rispetto a un qualsiasi intento comunicativo o addirittura artistico in senso stretto. Di certo, infatti, questi stessi giovani non avrebbero
mai immaginato che alcune delle loro riviste sbeffeggianti, fatte magari con carta e pennarelli scadenti, fatte magari – incredibile a dirsi – per scherzo, quarant’anni dopo, sarebbero state considerate come l’ultima espressione delle avanguardie del Novecento, consacrate nientemeno che dall’Università di Yale. Un paradosso della storia, sicuramente, anche perché uno dei libri più conosciuti nati in seno al movimento del Settantasette, composto a più mani, tra gli altri, da Enrico Palandri, Claudio Piersanti e Carlo Rovelli (sì, lui, il fisico e scrittore), recitava senza troppe esitazioni come segue: “non tollereremo che esista uno storico, che […] ricostruisca i fatti, innestandosi sul nostro silenzio, silenzio ininterrotto, interminabile, rabbiosamente estraneo”. E dunque quando si studiano le carte e i
documenti prodotti dall’ormai proverbiale “ala desiderante” del movimento, soprattutto da un punto di vista stilistico e letterario, come hanno fatto per primi e magistralmente Klemens Gruber e Claudia Salaris, occorre fare i conti con questa contraddizione. Molti di essi, di tali documenti e di tali carte cioè, erano frutto di una letterale dépense, per rifarci anche qui a Bataille, ossia di uno “spreco” puro e semplice di energie e di risorse, fuori da ogni logica produttiva o di guadagno. Frutto di una creatività senza fini secondi, se non quelli dell’espressione subitanea e del piacere di creare e di godere insieme ai propri compagni. E, cosa ancora più importante, non erano in nessun modo pensati per arrivare o per parlare a chi non gravitasse nell’orbita del movimento, men che meno ai posteri. Figurarsi agli storici e agli studiosi di letteratura. Chi invece aveva cercato, tra i primi, di avviare una riflessione politica e filosofica più coerente intorno alla scrittura come pratica rivoluzionaria, dispiegando le potenzialità di mezzi di comunicazione (vecchi e nuovi) ormai riproducibili e utilizzabili dal movimento grazie alle sue conoscenze tecniche (usando terminologia esatta, il general intellect) era stato un collettivo bolognese che aveva dato vita, nel 1975, a un giornale stranissimo e quasi alieno nel panorama dell’editoria alternativa di allora, con una grafica sporca e spezzettata, già quasi punk: «A/traverso». Anche qui ci limitiamo solo a due nomi: Franco Berardi Bifo, fondatore della rivista, e Maurizio Torrealta. Non che in questo “piccolo gruppo in moltiplicazione” fosse assente quella componente di volontaria estraneità nei confronti di chi si trovava al di fuori del movimento. Così come non erano assenti quei caratteri avventizi ed estemporanei di cui si è detto. Basti pensare, infatti, che «A/ traverso» era un periodico del tutto sui generis: veniva dato alle stampe a seconda delle esigenze dei suoi animatori, oppure a fronte di qualche fatto eclatante. Come poteva essere, per esempio, l’arresto dello stesso Bifo, oppure, per focalizzarci sul 1977, la chiusura forzata della gemella Radio Alice, nata proprio dallo stesso collettivo di Berardi e Torrealta. Molti furono i temi e gli argomenti affrontati dalla rivista nel corso della sua prima fase di esistenza, dal 1975 al 1981: dalla proletarizzazione del lavoro intellettuale alla potenza eversiva della festa intesa come scatenamento e momento di riconquista dello spazio e del tempo pubblico, passando per un nodo ancora adesso cruciale, ossia quello della riappropriazione della tecnica e della tecnologia quale via principale per la liberazione progressiva dal lavoro, come aveva spiegato Marx nel celebre frammento sulle macchine. Marx ma non solo: gli animatori di questo giornale si rifacevano dichiaratamente anche a pensatori molto più eterodossi e contemporanei: a Deleuze e Guattari con la loro “schizoanalisi”, e a Foucault con la sua microfisica del potere. Soprattutto quest’ultima aveva spinto Bifo e i suoi sodali a cercare un campo di lotta diverso da quello intrapreso dalla tradizione marxista-leninista. Oltre la politica stessa, perché il potere l’aveva superata ormai di molto. Il campo di lotta che scelse «A/traverso» fu quello della comunicazione e dell’informazione. Gli animatori di questa rivista capirono insomma prima di altri che ciò che bisognava urgentemente interrompere era il codice che riproduce in continuazione, e in continuazione uguale a se stesso, lo stato delle cose. E come si poteva (si può) rompere un codice,
ossia una concatenazione di segni? Per mezzo della poesia, intesa nel suo senso più ampio e più profondo. Ossia come fuoriuscita consapevole dall’ordinario manifestarsi e organizzarsi della parola. Perché se, come ha scritto uno dei più grandi filosofi del Novecento, i limiti del nostro linguaggio sono (e cioè significano) i limiti del nostro mondo, allora, scardinando questi limiti è possibile scardinare anche l’assetto del mondo per come lo si è conosciuto (e cioè pensato) fino a quel momento. Far propria una simile concezione della poesia significava reimmettersi nel solco delle avanguardie storiche, ma anche, in un certo senso, scavalcarle. Futurismo, surrealismo e dadaismo, così come scrittori irregolari quali Majakovskij e Artaud, rappresentavano sì dei modelli da seguire, a patto però che li si tradisse, facendo un passo ulteriore e ancora più estremo sulla strada che avevano aperto. La scrittura, secondo il collettivo riunito intorno ad «A/traverso», doveva farsi prassi rivoluzionaria, erompere dalla mera dimensione segnica e tramutarsi in gesto, in un’azione concreta
(anche violenta, diciamolo) in grado di bloccare il continuo riprodursi della realtà: allo stesso identico modo in cui la poesia riesce a intercidere il normale flusso della parola. Non più semplice dadaismo, dunque, bensì maodadaismo: scrittura più prassi, Dada più Mao. Le teorie così complesse e innovative di «A/traverso» non erano però solo il prodotto di alcune menti brillanti isolate, o agganciate unicamente all’esperienza del movimento di contestazione. Erano piuttosto una delle molteplici e multiformi manifestazioni di un rigoglio culturale straordinario e irripetibile che si registrò in quegli stessi anni a Bologna, in particolare nel 1977. E in effetti, se si va a guardare meglio nella storia dell’isola rossa d’Italia di quel tempo, nella città del socialismo reale, o, come la definirono ironicamente i militanti del movimento, nella «Disneyland dell’amministrazione regionale
comunista» guidata dal sindaco Renato Zangheri, ci si renderà conto che lì, in quel preciso luogo e in quel preciso momento, le esperienze e le vicende di moltissimi artisti, scrittori, disegnatori, drammaturghi, filosofi e registi si incrociarono, per sbaglio perfino, dando vita a una stagione culturale unica. Quasi inspiegabile, e destinata a far sentire la sua presenza e la sua influenza per molto tempo ancora. Si pensi poi all’incidenza del DAMS per la formazione di un simile crogiolo. Fondato nel ’71, il corso di Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo divenne nel giro di un decennio un polo attrattivo per le generazioni nate tra la fine degli anni ’40 e la metà degli anni ’50. Del resto, la schiera dei professori era più che allettante: Umberto Eco, Giuliano Scabia, Piero Camporesi, Luigi Gozzi, Alfredo Giuliani, Gianni Celati e altri, molti altri. (Esponenti di spicco della Neoavanguardia nella città in cui si parla di maodadaismo: sarà una coincidenza?) Ma non meno entusiasmante risulta forse un elenco (parziale, sempre parziale) degli studenti che frequentarono i loro corsi: i già ricordati Palandri e Piersanti, ma poi anche Pier Vittorio Tondelli, Freak Antoni, Pino Cacucci e Andrea Pazienza, solo per fare alcuni nomi. Vista da questa prospettiva, la Bologna di quegli anni sembra quasi un paese delle meraviglie. O forse proprio il paese delle meraviglie, quello di Alice: la stessa di Carroll, di Deleuze, di Celati e ancora quella della radio omonima. Un’Alice underground, come ha scritto Silvia De Laude. Anche solo la mappa di questa città, a guardarla adesso, sapendo cosa succedeva
nelle sue vie allora, sembra ancora restituire vividamente un intreccio di storie che hanno dell’incredibile. Ecco via Marsili 19, dove viveva Bifo con molti altri compagni e dove fu progettato e assemblato «A/traverso». C’è poi via del Pratello 41, dove la polizia fece irruzione per arrestare in diretta gli speaker di Radio Alice. Ecco non distante, ancora, via Clavature 20, che il fumettista Filippo Scòzzari ribattezzò con il nome di Traumfabrik: fabbrica dei sogni. Lo stesso appartamento occupato in cui si formarono anche i Gaznevada. Di questa casa ha raccontato Emanuele Angiuli in un avvincente documentario. Tuttavia non va affatto dimenticato che Bologna fu anche lo scenario di scontri durissimi tra i militanti e le forze dell’ordine, scontri seguiti a un evento ancora più drammatico: l’uccisione di Francesco Lorusso da parte di un carabiniere, in via Mascarella. Il paese delle meraviglie conserva anche i suoi anfratti di oscurità e le sue contraddizioni, proprio come il movimento del Settantasette tutto. Del resto è sempre a Bologna che quest’ultimo si consumò definitivamente, in settembre, al Palasport, durante il convegno contro la repressione. La topografia del capoluogo emiliano, con le sue vie e le sue case tuttora riconoscibili, riesce a parlare ancora del suo Settantasette. E allora non pare un caso che il regista Renato De Maria, nel 1991, abbia raccontato la fine ultima di quest’esperienza con un film dal titolo assai emblematico: Il trasloco. Protagonista: Bifo. Trama: la casa in cui abita dal 1972 deve essere (davvero) sgomberata. Anche se non sembra, è invece un caso il fatto che questo stesso film venne proiettato su Rai Tre, in seconda serata, la notte di natale del 1991. La stessa notte in cui le bandiere sovietiche issate sul Cremlino venivano riposte una volta per tutte. Insieme agli scatoloni di via Marsili 19, un intero mondo, già antico, veniva per sempre smantellato.
[…] Bologna ’77 e dintorni: nel paese delle meraviglie (?) di Luca Chiurchiù […]
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