di Luca Falciola
Chiunque abbia un po’ di famigliarità con questa storia avrà subito colto l’ironia della sorte: il movimento del ’77, a quarant’anni di distanza, viene intrappolato nelle teche di una mostra. Il movimento che si consumò nel “qui ed ora” assoluto, il movimento del “presente senza storia”, come cantava Gianfranco Manfredi in una canzone diventata inno di quell’anno, il movimento del “non esisterà uno storico” che saprà ricostruire l’accaduto, come minacciavano i militanti di allora, diventa oggi reperto museale. Se la circostanza di una mostra può avere il sapore di uno scherzo del destino, ci offre nondimeno un’occasione preziosa per toccare con mano le tracce di quell’esperienza e per calibrarne la portata storica. Gli studi accademici e il discorso pubblico hanno a lungo esitato a valorizzare il Settantasette, riducendolo in
genere ad una recrudescenza del Sessantotto, ad un insieme scoordinato di episodi di dissenso o all’incubazione del fenomeno terroristico. Ai margini è sopravvissuta una tenace memoria di parte, ma il movimento è rimasto, agli occhi dei più, una “città invisibile”. Paradossalmente, si è realizzato l’auspicio dei suoi protagonisti, che volevano sottrare quell’esperienza al giudizio altrui. Oggi, tuttavia, grazie alla riscoperta e all’analisi sempre più distaccata delle fonti documentarie, il movimento del ’77 si delinea chiaramente come un fatto storico rilevante ed emerge in forma tridimensionale come un ciclo di contestazione dai caratteri originali. Benché inseparabile dalla lunga stagione dei movimenti (iniziata alla fine degli anni Sessanta), il Settantasette ebbe radici sociali, attori,
identità, rivendicazioni, modalità d’azione, linguaggi, avversari e luoghi caratteristici. A quarant’anni di distanza, si può provare a ripercorrerli, almeno brevemente. Si capirà così come quel movimento rappresenti un tassello interpretativo indispensabile non soltanto per comprendere gli anni Settanta, ma anche per decifrare fenomeni di costante attualità: dalla transizione della società italiana verso il postfordismo al rapporto dei partiti di sinistra con la società civile, dall’evoluzione dei movimenti di fronte alla crisi delle ideologie ai percorsi della violenza politica. Per cominciare, occorre tenere presente il contesto economico e sociale in cui germogliò il movimento. L’Italia di quel periodo, in uno scenario globale radicalmente diverso rispetto agli anni Sessanta, non solo sperimentava un primo sensibile rallentamento della crescita dopo il boom economico, ma iniziava anche ad abbandonare il modello di sviluppo fordista. Inflazione a due cifre, allarmanti livelli di disoccupazione giovanile, frazionamento della fabbrica sul territorio, delocalizzazione delle produzioni e crescita del lavoro nero e precario furono soltanto alcune tra le prime conseguenze di questa profonda riconversione del sistema. Si trattava di un mutamento epocale che allora veniva avvertito, in anticipo e più acutamente, dalle categorie meno protette. Inedito fu anche il contesto politico del 1977. Il Partito comunista italiano, raggiunto il suo livello massimo di consensi alle elezioni politiche del giugno 1976, abbandonava l’opposizione e si avvicinava per la prima volta alle responsabilità di governo. Tuttavia, si accingeva a compiere questo fatidico passo secondo lo schema del compromesso storico. In nome della solidarietà nazionale, il PCI finì per barattare la propria “non sfiducia” ad un governo Andreotti in cambio della promessa di misure per lo sviluppo economico, l’occupazione e l’ordine pubblico. I comunisti si trovarono così ad assecondare un programma impopolare di “austerità” e “sacrifici” dettato dalla Democrazia cristiana. La sinistra rivoluzionaria, a quel punto, ebbe buon gioco a denunciare il definitivo tradimento del PCI e l’avvio di una manovra per scaricare i costi della crisi sui proletari. Peculiare fu inoltre la carica di aspettative e di frustrazioni accumulate dai movimenti della sinistra extraparlamentare nel precedente decennio di lotte. L’assalto al cielo, come si usava definirlo, era diventato per molti aspetti un assedio logorante, dai magri risultati. Certo, anche grazie alla pressione della contestazione e alla diffusione di una vivace controcultura, l’Italia si era rapidamente modernizzata. Eppure, agli occhi di molti, anni e anni di impegno politico totalizzante e di contese ideologiche avevano trascurato relazioni sociali e rapporti umani fondamentali. Ad esempio, sul lavoro, tra i sessi, con il corpo. Il movimento femminista, allora in crescita impetuosa, denunciava infatti sia la continua scissione tra dimensione privata e dimensione politica, sia l’ossessione dei giovani rivoluzionari per le contraddizioni economiche. Non a caso, i gruppi organizzati come Lotta continua versavano in stato di crisi e avevano fallito anche nel tentativo di incidere sul terreno parlamentare. La prestazione deludente del cartello di Democrazia proletaria alle elezioni del 1976 lo aveva confermato senza equivoci. Il movimento del ’77 nacque quindi, almeno in parte, come reazione a questo sentimento di insoddisfazione. Il Settantasette assunse una fisionomia specifica anche in ragione del carattere antropologico e sociale dei suoi protagonisti. Giovanissimi militanti della sinistra rivoluzionaria, avvicinatisi alla politica in un contesto di disillusione e radicalizzazione, si unirono a meno giovani militanti che sognavano una resa dei conti col sistema dopo anni di lotte. A differenza della precedente ondata di protesta, animata da uno strato di studenti universitari in genere privilegiati, a dare corpo al movimento fu un aggregato di giovani proletari e piccoloborghesi, studenti-lavoratori e fuori sede, precari e disoccupati, i quali condividevano la percezione di trovarsi al di fuori delle garanzie del sistema e di essere “senza futuro”. Va da sé che il movimento fu un soggetto collettivo impaziente e intransigente, oltre che un connubio di studenti colti e di giovani più “selvatici” delle periferie. Le università, di conseguenza, rappresentarono soprattutto un luogo di aggregazione piuttosto che il bersaglio principale della protesta, la quale partì dagli atenei ma si abbatté contro l’intero sistema. Senza precedenti fu infatti la carica sovversiva e anti-istituzionale del movimento. Cosa volevano cambiare i giovani del Settantasette? L’intera esistenza, subito. “Riprendiamoci la vita, prima che la vita cambi noi” recitava uno slogan allora in voga. Anche per questo le aspettative palingenetiche del movimento cozzarono immediatamente con la realtà, senza che ci fosse il tempo di aggiustare il tiro. L’ipotesi di una mediazione politica e l’idea di un programma di rivendicazioni esaudibili attraverso la contrattazione democratica non appartennero mai all’orizzonte mentale né al lessico dei contestatori. A ciò si deve aggiungere la profonda sfiducia nei partiti, nella democrazia borghese e nello Stato repubblicano da parte di una generazione che era stata spettatrice di stragi impunite, tentativi di golpe ed episodi scandalosi di malcostume politico. Al contrario dei loro predecessori, i militanti del ’77 esibirono altresì una forma di diffidenza istintiva per il mondo operaio, specialmente quello delle grandi fabbriche, che era visto come addomesticato dalle gratificazioni economiche e paralizzato dal moderatismo del PCI. È vero, in sintonia col movimento del ’77 si verificò un sussulto di agitazioni operaie, vi furono connessioni provvisorie tra i due mondi e i giovani ribelli continuarono a rivolgersi, almeno retoricamente, ai lavoratori. Tuttavia, l’incontro operai-studenti non si materializzò mai nelle forme sperimentate durante l’autunno caldo. Si cristallizzarono, invece, “due società”, benché la nota formula di Alberto Asor Rosa venisse allora sdegnosamente rigettata. Da una parte la classe operaia organizzata, dall’altra l’area dei cosiddetti emarginati. Del resto, ad unire questo movimento dagli innumerevoli affluenti, vi fu anche – e forse soprattutto – una profonda avversione per il lavoro. Mai come allora, i giovani della sinistra rivoluzionaria denunciarono il lavoro come un giogo che sottraeva “tempo di vita” e soffocava il desiderio. Mai come allora, e in esplicito contrasto con la tradizione comunista, il lavoro perdeva il proprio valore di percorso per definire l’identità personale e cessava di essere volano per l’emancipazione sociale. In un contesto di penuria di opportunità anche per i neo-laureati e i diplomati, le richieste di lavorare “meno ma tutti” o di ottenere un “reddito intero” sganciato dalla prestazione lavorativa si fecero pressanti. Frequente fu anche l’impulso ad appropriarsi dei beni materiali desiderati, inclusi quelli voluttuari, attraverso una serie di pratiche illegali che divennero cifra caratteristica del movimento, ovvero autoriduzioni, espropri proletari e occupazioni. Prendersi tutto, in altre parole, senza aspettare concessioni: dai biglietti dei cinema di prima visione ai pasti in mensa, dagli spazi da auto-gestire al vino d’annata al ristorante. Parallelamente, emerse tra i giovani del movimento una nuova e diffusa esaltazione dell’ozio, del gioco, della festa e del divertimento. Col senno di poi, pensando ad un’Italia giovanile che di lì a poco si sarebbe infatuata per La febbre del sabato sera e avrebbe affollato le nascenti discoteche, queste tendenze del movimento sono state interpretate come espressioni di puro edonismo e di malcelato disimpegno. Viceversa, si trattava di declinazioni ancora politiche e radicali di bisogni diffusi. L’homo ludens immaginato dai ribelli del ’77 intercettava sì le aspirazioni giovanili, ma rappresentava prima di tutto un antidoto ai ritmi imposti dal lavoro e un’alternativa all’esistenza fondata sulle logiche produttive e utilitaristiche del capitalismo. La singolarità del Settantasette risiede inoltre nella sua vasta sperimentazione intellettuale e ideologica. In uno sforzo di rinnovamento del bagaglio culturale della sinistra rivoluzionaria – quella sinistra che aveva promesso molto e mantenuto troppo poco – i giovani del ’77 si appropriarono di nuovi (o molto antichi) riferimenti. Ripensarono così la rivoluzione
al di fuori della lotta di classe, a partire da altri soggetti e attraverso esperienze diverse. Attinsero, ad esempio, alla riflessione sulla microfisica del potere di Michel Foucault, che disegnava la repressione come una rete diffusa e invisibile. Si innamorarono dei testi ermetici di Gilles Deleuze e Félix Guattari, che esaltavano la forza eversiva del desiderio e indicavano percorsi “rizomatici” per il cambiamento. Siappassionarono agli scritti dei situazionisti, che condannavano le ideologie e celebravano la potenza rivoluzionaria dell’individuo, ivi compresa la sua violenza spontanea. Lessero, infine, tutti gli autori eretici a portata di mano, da Antonin Artaud a Tristan Tzara, da Paul Lafargue a David Cooper. Da questo percorso di revisione uscirono mutati e arricchiti anche i repertori d’azione del movimento. Teatro di strada, girotondi,
feste, pantomime, improvvisazioni, murales, fumetti, musica, pratiche di scrittura collettiva, radio libere e molto altro ancora testimoniano la ricerca di canali e codici espressivi che la politica, almeno nelle sue forme convenzionali, non sapeva più offrire. In tal senso, il Settantasette fu effettivamente un laboratorio di modalità creative di dissenso. E Bologna ne fu l’epicentro. La presenza dal 1971 di un corso di laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo (DAMS) aiuta a spiegare questa circostanza. In particolare, come ha notato Marco Belpoliti, i corsi universitari del drammaturgo Giuliano Scabia e del critico letterario Gianni Celati diffusero sensibilità culturali e schemi d’azione poi riproposti dal movimento. Le file indiane per aggirare i divieti a manifestare, i fintiprocessi pubblici, i lanci di mongolfiere, il drago che apriva i cortei, la guerriglia comunicativa di Radio Alice e il “mao-dadaismo” della rivista «A/ traverso» furono in effetti declinazioni politiche di quegli stimoli. Ma, ovviamente, rispecchiavano anche lo spirito carnevalesco e irriverente del movimento, oltre che l’atmosfera effervescente di una città dove circolava un flusso continuo di artisti e intellettuali. Come noto, il movimento del ’77 fu anche, simultaneamente, un humus di violenza. La violenza di piazza, praticata durante i cortei e rivendicata collettivamente, crebbe a livelli mai sperimentati prima d’allora e arrivò a colpire gli individui. Allo stesso modo, la violenza dei gruppi
armati clandestini si rafforzò decisamente, così come crebbe il reclutamento nelle fila del movimento da parte di tali organizzazioni. La legittimazione della violenza, intesa come arma per difendere e per attuare la rivoluzione, fu senza precedenti perché diffusa a macchia d’olio, perché trasversale rispetto alle varie anime del movimento e perché basata su un largo ventaglio di motivazioni, sia politiche sia esistenziali. Anche laddove non invocata esplicitamente né praticata, la violenza trovò comprensione, protezione e reticenza. Furono decisivi, a tale riguardo, lo scontro incessante con i neofascisti, la reazione talora brutale delle forze dell’ordine, la solidarietà incrollabile tra compagni e, infine, un sentire comune nel movimento che rifiutava a prescindere la nonviolenza. Nel 1977 anche la contrapposizione tra sinistra parlamentare e sinistra rivoluzionaria fu del tutto inedita per intensità e drammaticità. In verità, fino alla metà degli anni Settanta, una forma di dialogo e di solidarietà tra i due universi politici aveva retto. Il richiamo comune all’antifascismo e la denuncia unanime della strategia della tensione e della repressione avevano garantito un terreno d’intesa. Invece, nei dintorni del 1977, il trait d’union si spezzò e il PCI divenne il bersaglio polemico privilegiato degli extraparlamentari. Nel corso del processo di costruzione identitaria del movimento, il partito guidato da Enrico Berlinguer finì per condensare tutti i caratteri che meritavano il
disprezzo dei rivoluzionari: pratica riformista, vocazione interclassista, difesa delle istituzioni, morale dei sacrifici, dialogo con l’avversario, esaltazione del lavoro, appello all’austerità, culto dell’impegno e uso retorico della Resistenza. Come è noto, la rivalità tra PCI e movimento non rimase sul piano simbolico, ma fu anche fisica e umanamente dolorosa. Al muro di preconcetti e di critiche eretto dai giovani, che vedevano nell’azione del PCI soltanto repressione e stalinismo, il Partito, specie per bocca dei suoi dirigenti nazionali, rispose con accuse altrettanto taglienti: “irrazionalismo”, “fascismo rosso”, “teppismo”, “squadrismo”. Nel momento in cui la pregiudiziale anti-comunista sembrava finalmente cadere, il PCI ritenne che non vi fosse alternativa alla denuncia apertis verbis di un movimento estremista così aggressivo. Ritenne inoltre, segnando una discontinuità importante, che le forze dell’ordine – anche se opposte ai giovani ribelli, ma schierate in difesa delle libertà democratiche e delle istituzioni –
meritassero esplicito sostegno. La relazione tra PCI e sinistra rivoluzionaria, come provano i documenti, fu in realtà più complessa. A livello locale i toni furono più concilianti, i canali di dialogo furono molteplici e i tentativi di mediazione furono frequenti. La stessa Federazione giovanile comunista fu presente alle primissime assemblee del movimento, condividendone gli assunti di fondo. I metalmeccanici della FLM tentarono a propria volta di supplire alle incomprensioni tra sindacato e studenti. Infine, il lavoro culturale del PCI per cercare di interpretare il malessere giovanile fu approfondito e informato. È vero, tutto ciò valse a poco. Il PCI era legato a parole d’ordine consunte, era interamente focalizzato sul problema dell’occupazione ed era pervaso dalla sensazione che un torbido disegno eversivo agisse ai suoi danni. Tuttavia occorre tenere a mente che il mondo comunista non fu un monolito, ma fu capace di autocritiche, tentò di isolare i violenti e cercò di ricucire gli strappi. Il confronto tra le due sinistre ebbe in Bologna il suo palcoscenico più tumultuoso e forse più rivelatore. Nel capoluogo emiliano, lottare contro il PCI significava opporsi – ad un tempo – alla politica, alle tradizioni ideologiche, alleistituzioni e ai padri. Vale la pena di ricordare, infatti, che socialisti e comunisti governavano la città da trent’anni e che, all’ultima tornata elettorale del 1975, la lista “Due torri” di comunisti e indipendenti aveva raccolto il 49,3% dei voti, ovvero il massimo consenso di sempre. Il sindaco Renato Zangheri, intellettuale elegante e pacato, incarnava perfettamente questa versione del comunismo: “senza ostentazione, senza spirito di casta”, come annotò il suo amico Enzo Biagi. La collaborazione con la minoranza democristiana era buona, specie nei consigli di quartiere, tanto che non mancavano critiche alle pratiche di lottizzazione. Pur finanziati con il debito, i servizi sociali erano il fiore all’occhiello di un’amministrazione che sembrava capace, meglio d’ogni altra, di coniugare socialismo e democrazia, solidarietà e compromesso. “Bologna è in Scandinavia”, scrisse non a caso il «Corriere della Sera» tessendo le lodi di quella che, in effetti, pareva a molti la capitale morale d’Italia. Non stupisce pertanto che i giovani del movimento si scagliassero proprio contro quel modello culturale e politico. Se è vero che Roma fu la città complessivamente più colpita dalle azioni del movimento, il capoluogo emiliano ne divenne il luogo precipuo. Nell’ottica della sinistra rivoluzionaria, Bologna rappresentava l’imposizione forzata della “pace sociale” e della “collaborazione tra classi”, la “città di piccoli proprietari di appartamenti” che sfruttavano gli studenti fuorisede, la città “bottegaia” guidata da “Zangheron de’ Zangheroni servo dei padroni”. Gli eventi sono noti. Dall’11 marzo in poi la gestione dell’ordine pubblico fu a tratti incauta a tratti fuori misura, il movimento fu apertamente violento, i poteri pubblici furono intransigenti nei confronti della protesta e, infine, l’inchiesta giudiziaria sui fatti di marzo fu oltremodo lunga e controversa. L’uccisione di Pier Francesco Lorusso e i moti di quei giorni segnarono quindi un punto di non ritorno. La cittadinanza reagì con una vasta mobilitazione civile contro la violenza, mentre il movimento accentuò la propria estraneità e la propria rabbia. L’esperienza positiva di settembre – quando i contestatori poterono celebrare liberamente il proprio convegno contro la repressione in quella Bologna denunciata proprio come “la capitale della repressione” – allentò le tensioni e suggerì che, a certe condizioni, una dialettica tra movimento e istituzioni era forse possibile. Ma si trattava di un’illusione; il tempo era
ormai scaduto. L’escalation violenta di alcune frange del movimento si era già innescata, prima sull’onda dell’entusiasmo per l’illegalità diffusa, poi come reazione alla repressione. Anche le vie di fuga degli altri militanti erano sotto gli occhi di tutti: ripiegamento nel privato, ricerca culturale e artistica, autodistruzione con le droghe pesanti. Il movimento del “presente senza storia” si era consumato in un lampo. Eppure aveva rappresentato un’esperienza tangibile e segnante per un’intera generazione politica di sinistra e per i suoi avversari. Aveva annunciato mutamenti sociali epocali e aveva denunciato contraddizioni che continuano a riverberarsi nella realtà contemporanea. Per questo, oggi, chiunque voglia riannodare i fili tra passato e presente è costretto a tornare alle testimonianze di quei giorni, sulle tracce della “città invisibile”.
[…] Sulle tracce della “città invisibile” di Luca Falciola […]
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